“Ho vissuto per anni recluso in camera” ecco la mia storia!

8 Ottobre 2018 Vincenzo Abbate

“Ho vissuto per anni recluso in camera” ecco la mia storia!

Alessandro ha sofferto della sindrome di Hikikomori. Per anni si è isolato dal mondo rifiutandosi di uscire da casa. Ma grazie all’amore dei genitori e all’aiuto degli psicologi ha ritrovato la voglia di vivere in mezzo agli altri.

Riceviamo e pubblichiamo da www.vanityfair.it

 Mi chiamo Alessandro e a novembre compirò 21 anni. Sono iscritto al primo anno di Scienze Politiche. Per ora non ho dato esami, ma mi piace molto seguire le lezioni e leggere. Se penso a come vivo ora, cioè al fatto che mi alzo al mattino con la sveglia, faccio colazione, porto il mio cane Body al parco e poi vado all’università, mi sembra che siano passati dei secoli da quando vivevo recluso in casa, rifiutando ogni tipo di contatto con il mondo esterno, compresi parenti e amici. Eppure sono trascorsi solo otto anni. Questa è la mia storia.

Era l’estate tra la seconda e la terza media quando ho iniziato a non sentirmi a mio agio in mezzo al solito gruppo di amici del mare. Rispetto all’anno precedente erano molto cambiati.  Alcuni avevano la ragazza e ci stavano sempre appiccicati. Altri invece erano diventati più alti e grossi e andavano in giro con il cellulare. Una sera eravamo davanti alla gelateria della piazzetta e ho avuto la sensazione di non avere più nulla a che fare con loro. Me la prendevo con i miei pantaloni che secondo me erano ridicoli perché erano troppo corti e poi perché ero uscito con i sandali al posto delle sneakers. Mi sentivo gli occhi degli altri addosso. Mi sembrava che alcuni ridessero di me guardandomi strano. Mi ricordo perfettamente che da quella sera in poi uscire diventò un problema. Niente era più come prima. Mi sembrava che gli altri avessero qualcosa in più di me. Non riuscivo a raggiungerli. E mi sentivo di non essere come loro.

A settembre iniziò l’anno scolastico. Andavo a scuola regolarmente, ma quella strana sensazione era sempre con me. Anche quando mi allenavo a calcio non mi sentivo più a mio agio. Giocavo da sei anni nella stessa squadra e conoscevo praticamente tutti, ma in campo e negli spogliatoi era come se avessi la sensazione di essere osservato e di essere sempre costantemente giudicato dagli altri. Era capitato spesso di stare in panchina e non era mai stato un grande problema. In quel periodo però era come se ogni minima situazione che non confermava il mio valore la interpretassi come un fallimento insostenibile, una situazione troppo faticosa da affrontare. Allora pensai che era meglio isolarsi.

Iniziai a saltare le lezioni in classe perché dicevo di avere continui mal di testa. Mia madre era preoccupata e mi portò a fare delle visite mediche. I dottori dissero che non avevo niente e che probabilmente si trattava solo di un po’ di stress e che i mal di testa così come gli attacchi di mal di pancia erano tutta una questione psicologica.  Io però non stavo bene. Non sapevo come spiegarlo. Se di mattina stavo a letto, di pomeriggio giocavo con i miei videogiochi preferiti. Solo così riuscivo a sentirmi rilassato e tranquillo.

A fine ottobre passai una settimana di fila a casa perché non riuscivo ad alzarmi dal letto. Iniziai allora a pensare a come giustificare la mia assenza nel caso fossi tornato a scuola: dal mio punto di vista non avevo più scuse.  La scusa del mal di testa o del mal di pancia non reggevano più. Mia madre non sapeva più cosa dire e allora iniziò il periodo degli scontri. Mio padre ogni mattina mi trascinava giù dal letto e tentava di portarmi con la forza in classe.  Io mi opponevo. I miei genitori si misero in testa che in realtà io volessi stare a casa per giocare e che non andassi a scuola perché non avevo voglia, quindi era colpa del computer.

Nessuno aveva capito niente. Nessuno poteva comprendere quel mio comportamento, né i miei genitori né i professori, né i compagni di scuola e, a pensarci bene, neanche io capivo cosa stesse succedendo. Ero letteralmente terrorizzato al solo pensiero di uscire di casa. L’unico posto in cui mi sentivo al sicuro era la mia stanza, il mio rifugio.

Dopo qualche tempo mia madre mi portò da una neuropsichiatra per provare a capire cosa stesse succedendo. Io non ero affatto d’accordo, ma cedetti: se fossi andato lì, mi dissero che mi avrebbero ridato la play station. Ci andai solo per tre volte e poi basta. Non avevo voglia. Volevo stare solo a casa a giocare. Di giorno dormivo e di notte giocavo online con un gruppo di amici virtuali. Mi gestivo in totale autonomia. La mia camera era il mio mondo. Facevo incursioni in cucina solo per prendere qualcosa da mangiare in camera. La tapparella della finestra rimaneva sempre chiusa: anche la luce mi dava fastidio. I miei genitori erano rassegnati. Mi chiamavano “tiranno”. A un certo punto però iniziarono a non dirmi più niente e a non darmi più addosso per la scuola o per come trascorrevo in totale solitudine le mie giornate.

Iniziarono a capire che avevo vergogna di farmi vedere. Gli sguardi degli altri erano come fucili puntati per me. Mi sentivo inadeguato in qualsiasi situazione, figuriamoci a scuola. Giocando invece mi sentivo bene, mi sentivo forte e capace. Venivo rispettato anche perché ero diventato a furia di allenarmi anche un bravo giocatore.

 

Poi, un giorno mia madre mi disse che sarebbe venuto uno psicologo a casa. Io le dissi che non c’era nessun problema perché non sarei mai uscito da quella stanza, ma Fabrizio, lo psicologo, trovò il modo di entrare infilando sotto alla porta dei bigliettini. Dopo qualche tempo le cose cominciarono a prendere una piega diversa perché pian piano iniziai a dare un significato a quello che mi stava succedendo. Lo psicologo che veniva una volta a settimana iniziò a entrare nella mia camera. Mi interessava sentire cosa pensasse del mio modo di giocare: mi piaceva poter ragionare insieme, sentivo che riuscivo a dare più senso a quello che mi circondava.

Sono tornato a scuola dopo molto tempo recuperando gli anni in alcuni istituti privati. Fabrizio mi ha aiutato molto a superare il disagio, ma credo che sia stata fondamentale anche la vicinanza dei miei genitori. Ora sono felice di potermi guardare intorno e di poter essere di nuovo guardato senza vergogna e senza paura.

Alessandro

(Testimonianza raccolta da Angela Altomare)

fonte: https://www.vanityfair.it/benessere/salute-e-prevenzione/2018/07/05/ho-vissuto-per-anni-recluso-camera-le-nostre-storie-dedicate-alla-salute-mentale

foto: http://www.hikikomoriitalia.it

, , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *